Un posto a tavola con Veronese
Nelle maestose invenzioni (non ultima quella a Monte Berico) i banchetti pieni di luce e colore diventano degli scenari teatrali
Di tanto in tanto si annida all’interno dei buoni propositi un secondo e inatteso risultato. È il caso del libro “Le fastose Cene di Paolo Veronese”, 140 pagine, Terra Ferma edizioni, scritto da Gianni Moriani (vice direttore del Master in Cultura del Cibo e del Vino all’Università Ca’ Foscari di Venezia) in coincidenza con l’importante rassegna sul grande pittore del Cinquecento a Verona (Palazzo della Gran Guardia sino al 5 ottobre). A partire dal titolo, esso ci ricorda come non sarà mai possibile restituire in un unico itinerario espositivo la parte più grandiosa e stordente di questo formidabile ideatore di immagini, definito da Berenson “il più grande maestro di visione pittorica, come Michelangelo è il più grande maestro di visione plastica”. Impensabile presentare in sequenza le sue spettacolari e gigantesche Cene. Anche se il pensiero non può fare a meno di ricordare che l’unica ad aver mantenuto l’originaria collocazione – dopo essere stata ricomposta come un puzzle di 32 tessere, a causa delle sciabolate dei soldati austriaci nel 1848 – è la Cena di San Gregorio Magno, ancor oggi nell’antico refettorio dei frati, nella Basilica di Monte Berico a Vicenza. È nelle vaste dimensioni che l’incedere felice e miracoloso del suo dipingere si trasforma in impareggiabile racconto. Un pittore arrivato a Venezia, a ventitré anni, dopo essersi formato a Verona – vi era nato nel 1528 (morirà nel 1588) – nella bottega di Antonio Badile, le cui finestre erano aperte in direzione del manierismo, di Correggio, di Parmigianino, della pittura fiorentina e romana, filtrata attraverso Giulio Romano, presente nella vicina Mantova. Un veneziano adottivo dal “crepitante” cromatismo, che riflette sull’arte classica, sulle bianche architetture di Sanmicheli prima e di Palladio poi. Quali sono queste Cene? Una, la prima, la “Cena in casa di Simone”, l’unica ad essere dipinta a Verona, per il convento benedettino dei Santi Nazaro e Celso (1556): è alle pareti della mostra e questo è un evento nell’evento. Poi l’imponente tela delle “Nozze di Cana” (1563) eseguita per San Giorgio Maggiore a Venezia e ora al Louvre; quindi, due rappresentazioni della “Cena in casa di Simone”, entrambe dipinte agli inizi degli anni ’70, una a Brera e l’altra a Versailles. Inoltre c’è la celebre “Cena in casa Levi”, ora alle gallerie dell’Accademia a Venezia, la cui vicenda è stata ricostruita anche in “Processo per eresia“ da Neri Pozza. Nel 1887, tra i documenti, si scoprì il verbale di un processo che vedeva nel 1573 il pittore accusato dall’Inquisizione per aver trattato con inaccettabile leggerezza uno dei temi maggiormente rappresentativi della cristianità: “L’ultima cena”, dipinta per il convento dei domenicani dei Santi Giovanni e Paolo. Tra le altre cose gli venne contestato di aver inserito nella rappresentazione, a poca distanza da Gesù, un cane, un nano buffone indaffarato col proprio pappagallo, alcuni soldati tedeschi con l’alabarda, persino una figura intenta a tamponarsi il naso. Se non fosse per il Cristo seduto al centro, sul quale l’artista fa confluire una luce diversa, in effetti Veronese sembra raffigurare un comune banchetto dall’atmosfera annoiata. A sua difesa l’artista disse cose semplici: “Noi pittori ci prendiamo le stesse libertà che sono consentite ai poeti e ai matti”. Tutt’altro che matto, nel cuore teneva stretta la propria arte, difendendone orgogliosamente la fonte segreta. Anziché abbassare il capo di fronte all’Inquisizione, accettando di modificare la scena, ritenne più conveniente cambiarne il titolo: la celebre maxi tela, si trasformò nella “Cena in casa Levi”. Il libro di Gianni Moriani, accompagnato da una nota introduttiva di Paola Marini, ha il merito di introdurci nell’ambiente tradotto per immagini da Paolo Veronese. Quando Moriani scrive «il Cinquecento è il secolo in cui si afferma in Italia, nel banchetto, la nuova arte culinaria. Appaiono i professionisti: addetti al servizio e alla cucina. Le sale da pranzo vengono allestite come veri e propri teatri», nei dipinti di Veronese entriamo senza inciampare. Così come quando egli si sofferma sull’importanza culturale, non solo economica e sociale, delle stoffe e dei tessuti nella Venezia del tempo: velluti, sete, preziosi decori e merletti (ma lo stesso si può dire per i gioielli). Una contestualizzazione storica che ci aiuta a comprendere meglio come gli elementi decorativi riescano a trasformarsi nei suoi quadri in ipnotizzanti percorsi di luce.
Silvio Lacasella
Il Giornale di Vicenza (18 settembre 2014)