Venetia Fragrans
Spesso è nelle piccole cose che una cultura esprime la sua grandezza, che una tradizione meglio fa conoscere il suo radicamento. Per questo l’ultimo lavoro di Ulderico Bernardi, storico, letterato e sociologo che seguiamo con attenzione fin dalle sue prime opere degli anni ’70, inizia proprio da un piccolo particolare che illumina sull’influsso della cultura veneta nel mondo. L’universale “ciao” con cui, dalle antiche lettere alle attuali mail, moltissimi, italiani e non, salutano e congedano gli amici. Quattro lettere che sono l’estrema abbreviazione di un tradizionale saluto della Serenissima repubblica veneta: “S’ciavo vostro”. Così è stato per l’uso della forchetta sulle nostre tavole, diffuso da Venezia a partire dall’XI secolo. Ora, proprio la produzione e il consumo alimentare sono, ci insegna Bernardi, l’ultimo ridotto dell’identità culturale: l’ultimo appiglio a cui si legano le comunità che stanno per essere sradicate, in patria o in terra straniera. Una tesi confermata anche per le nostre valli, certo meno radicate nella cultura locale per quanto riguarda la lingua parlata rispetto al mondo veneto, aspetto che, da noi è ritenuto oggi quasi privato, familiare. In tutte le Venezie, invece, la lingua fa parte del pubblico e diventa gene dominante anche all’estero. Si pensi che in alcuni stati brasiliani, e più precisamente Santa Catarina, Paranà, Espirito Santo e Rio Grande do Soul, “el Taliàn”, cioè il veneto, parlato dai moltissimi emigranti che là sì diressero nel XIX secolo, è lingua maggioritaria e protetta da specifiche normative federali. Valtellina e Valchiavenna confermano questa tesi e si aggrappano alla gastronomia come ultimo fattore identitario e, su questo, creano uno zoccolo di importante resistenza a suon di pizzocheri e sciàtt, di brisaola e violino, capace di coinvolgere anche chi è venuto a vivere, per necessità, tra le nostre montagne. Il libro di Bernardi è dunque un invito, una introduzione, per meglio conoscere l’intricato, complesso sistema culturale veneto, costruito, con le caratteristiche delle valve di una conchiglia marina intorno a Venezia, dalle origini porto e luogo di incontro di mondi lontanissimi. Oggi è di moda usare il termine meticciato per definire il prodotto di questo incontro tra diversità. È un termine non adatto a nostro parere per rendere il fenomeno nella sua complessità. Infatti, il rapporto interculturale sembra indirizzarsi verso un imbastardimento, un venire meno dell’identità in una miscela irriconoscibile. In realtà il processo culturale, partendo sempre da un radicamento – che non ha alternativa se non il suicidio personale e collettivo – costruisce identità e nuovi innesti perché il soggetto è sempre l’uomo e la sua esperienza e mai un concetto astratto.
La cultura delle piccole cose
La concretezza, quella della polenta e del baccalà, definisce i passi della cultura veneta, a partire dall’antica X Regio Venetia et Histria di epoca augustea fino allo spritz dei giovani negli attuali wine bar. Come giustamente scrive Bernardi: “Non si pensi che […] gli aspetti di una cultura siano troppo modesti e circoscritti per comprenderla. È sulle piccole cose, sui particolari e non sulle generalità che l’identità di un popolo si definisce. Nella lezione biblica il profeta Elia intende la parola del Signore non nel vento grande e gagliardo che scuote le montagne e spacca le pietre, non nel terremoto o nei roghi, ma nel sussurro della brezza leggera (Re I, 19, 11-13)”. Chiunque abbia conosciuto, come fortunatamente a me è capitato, il mondo veneto, capisce bene cosa questo significhi. Senza anguille, oche, gamberi di fiume, luganeghe, radicchio, grappa, Raboso, anche il Palladio, San Marco, la chiesa della Salute, il Tintoretto, Tiziano sarebbero incomprensibili. Tutto è unito in un insieme inscindibile di ombre e luci che ricorda la celeberrima Tempesta del Giorgione. Sembra semplice: si tratta di ripartire dal positivo della realtà in cui viviamo e lavoriamo. Eppure non è così facile, tanto ormai siamo distorti e confusi in un mondo che riduce l’uomo e le sue potenzialità. Non so quanti di noi avranno mai l’onore e il piacere di assaggiare la “sòpa coada”, la zuppa spessa di pane e piccioni, descritta come un capolavoro e che caratterizza Treviso e sembra riemergere con un universo di profumi e sapori dal mondo rinascimentale. Certo è che solo il fatto che ancora un piatto così sia rivisitato, e abbia possibilità di essere gustato, evidenzia la presenza di comunità in grado di conservare la tradizione come base solida di confronto oggi e domani.
Dario Benetti
Quaderni Valtellinesi (Primo trimestre 2014)