La civiltà del piròn

28.02.2014

La forchetta, importata dalla Grecia come dice il nome è simbolo del retaggio gastronomico di Venezia. Una tradizione che vive dalla Croazia alla Lombardi

In questo tempo in cui televisioni e giornali di ogni segnacolo, per non parlare soltanto delle disgrazie quotidiane, della crisi conclamata e della povertà incombente, si diffondono in articoli, cronache, reportages, immagini e perfino pubblicità su delizie gastronomiche di ogni paese, su piatti fatti di ogni strano connubio culinario, su miscugli di bevande ostiche e straniere, non stupisce che anche il professor Ulderico Bernardi, già docente ordinario di sociologia dei processi culturali nell’Università di Ca’ Foscari di Venezia, i cui principali interessi di studio, come si legge in un curriculum chilometrico, «riguardano il rapporto tra persistenza culturale e mutamento sociale nei processi di sviluppo, le relazioni tra globale e locale, l’educazione all’interculturalità», si sia lasciato tentare dallo scrivere un libro, che, dopo un titolo un po’ enigmatico anche se promettente, come è quello di Venetia frangrans, specifica il suo contenuto nel sommario: «Cucine e identità a Nord Est».

Detto così, potrebbe sembrare un ponderoso tomo professorale, in cui l’autore, come compete appunto ad uno studioso affermato, va alla ricerca del «rapporto tra persistenza culturale e mutamento sociale». Si tratta invece di un libro gustoso e appetitoso, tanto per stare in argomento, in cui si narra, attraverso una lista fenomenale di aneddoti, citazioni dotte e riferimenti popolareschi, visitazioni geografiche ed excursus storici, la millenaria vicenda di una civiltà veneta che la Venezia dei dogi ha portato non soltanto in quel territorio che si ama ancora definire come «Le Venezie», ma anche nella Lombardia e nella Croazia, lungo le sponde dell’Adriatico e nel Mar Nero, nella Grecia e nella Turchia, e che si è espressa non soltanto nell’arte militare e nel commercio, nelle grandi architetture e nella riforma fondiaria, ma anche in una sapienza culinaria che ha saputo sposare la cucina tradizionale con gli apporti delle spezie orientali, i sapori di un Veneto rurale con i saperi gastronomici di una nobiltà ricca e raffinata, che per prima nella storia della convivialità ha prima introdotto e quindi imposto il civile uso del «piron», la forchetta da tavola. Le pagine di questo libro sono una continua scoperta, e quindi un arricchimento culturale e  anche sociale, che accompagna il lettore da pagina a pagina, secondo un itinerario che è frutto non soltanto di mezzo secolo di ricerca, ma anche di una sollecitazione che si può dire amorosa a perfezionare questo ritratto di una vera e propria civiltà conviviale, caratterizzata da piatti sontuosi ed elaborati, ma anche da vivande semplici ed insieme raffinate nella loro derivazione popolaresca, con apporti significativi che vengono dal vicino Oriente ma anche dalla cultura mitteleuropea, e che la Venezia ha raccolto in quell’aureo libretto dal titolo Il Galateo che monsignor Giovanni Della Casa ha scritto per il vescovo di Verona, anche se Bernardi ne colloca la redazione «all’ombra delle querce del Montello trevisano».

LA RIVENDICAZIONE delle illustri origini del baccalà, naturalmente alla vicentina, con una preziosa citazione del veronese Angelo Messedaglia, docente all’Università di Padova, il primo che ricostruì il lungo viaggio del pesce dalla Norvegia al Veneto, si accompagna all’orgoglioso inno alla polenta, ingrediente fondamentale nell’alimentazione veneta dei secoli bui, che corrispondono alla fine della dominazione della Serenissima, mentre la minuziosa illustrazione delle virtù della patata, che salvò dalla carestia il Lombardo-Veneto insieme con l’Irlanda, risale alla rievocazione della nascita degli gnocchi, di cui fu cantore inarrivabile, nella lingua di sua invenzione che fu poi chiamata maccheronica, quel Teofilo Folengo, frate mantovano, in arte Merlin Cocai, che finì i suoi giorni nell’abbazia di Campese presso Bassano, e che ancor oggi è il nume tutelare di compagnie non di buontemponi ma di sani mangiatori. Non manca, ovviamente, da palte di uno scrittore che è anche membro della giuria dei premi Nonino e Masi, un ampio e succoso capitolo dedicato alle bevande, che si può riassumere nel distico «Dalla graspa alla graspìa». Questo caleidoscopio rutilante di immagini, di riferimenti, di ricordi personali o di illustri autori, che si sono interessati delle tavole imbandite quasi più dei tavoli da lavoro, si conclude con un preciso, puntuale ritorno all’assunto iniziale del libro, che si presenta come un racconto ilare e festoso ma che è anche il frutto di lunghi e severi studi. E qui ricompare il professore di sociologia, che ricordando come la cucina italiana, e nella fattispecie quella veneta, abbia fatto breccia nei ristoranti di tutto il mondo, e come l’Italia sia il Paese europeo in cui la cucina «etnica» è rappresentata con percentuali minori, scrive che «la cucina sta al cuore dell’identità, perché strettamente connessa a riti e celebrazioni evocative. Per cui è dimostrato che l’ultimo elemento a perdersi nell’assimilazione all’altrui cultura è proprio quello alimentare, per l’essere partecipe della dimensione materiale ed extramateriale del patrimonio ancestrale».

Giuseppe Brugnoli

L’Arena di Verona (15 febbraio 2014)