L’ultima cena? Un’oliva
Gelato alla menta, cioccolato e pollo fritto. Denuncia ed estetica: il pasto dei condannati
C’è da chiedersi come mai Henry Hargreaves, fotografo trentaquattrenne di origini neozelandesi, un passato da modello per le più prestigiose case di moda, abbia fatto del cibo il soggetto, se non esclusivo, certo dominante dell’attuale lavoro: a New York, nel suo studio, crea immagini provocatorie, puntando sull’elemento vitale dell’uomo, il nutrimento. Ciò che gli interessa, però, non è l’iconografia dell’alimentazione, ma la metafora, l’andare oltre. Spingendosi cioè dentro il pensiero di chi consuma un pasto piuttosto che un altro. Perché? La risposta arriva dallo stesso Hargreaves, a pochi giorni dall’inaugurazione della sua prima mostra allestita fuori dagli Stati Uniti: «No Seconds. Comfort Food e Fotografia». Si aprirà a Venezia il 7 settembre, al Museo della Follia sull’isola di San Servolo. «Per anni ho lavorato nei ristoranti – dice – e mi hanno sempre incuriosito le scelte che le persone fanno di fronte al menu, ordinando questo o quello, e come la scelta dica qualcosa di loro. Quindi ho sviluppato l’idea: il cibo come metafora della personalità».
Il tema è intrigante, soprattutto nell’epoca che ha imposto la gastronomia come fenomeno mediatico: diluvio di eventi, programmi tv, carosello di ricette create e raccontate da chef superstar che arruolano schiere di aspiranti cuochi, votati al perfezionismo. Hargreaves, fotografo di life style, frantuma il mito. Non pone sotto l’obbiettivo la perfezione del piatto, bello da vedere nella composizione e nei colori, prima che da mangiare. Con ironica provocazione, invece, scardina lo schema consegnandoci pasti bislacchi, inquietanti, immaginari. «Invitandoci, per esempio, a desiderare di mordere un arcobaleno. Esperienza ingannevole e divertente che domina la serie fotografica Food Of The Rainbow», spiega Chiara Casarin, curatrice delle mostra con il catalogo edito da Terra Ferma, una selezione di scatti della vasta produzione del fotografo. «La prima metà della mostra riguarda interamente il cibo e la società – racconta Hargreaves – . Con il cibo dell’arcobaleno che gioca sulle nostre aspettative visive, su come il cibo dovrebbe apparire e che gusto dovrebbe avere. C’è, inoltre, il consumo tecnologico rappresentato da gadget fritti. Ci sono le ossessioni sull’obesità, sul mantenimento della forma fisica. Mi sono anche divertiro a rappresentare i capricci culinari dei divi entrando nei loro camerini», aggiunge. Lady Gaga che esige i cubetti di formaggio su un letto di ghiaccio; o il campionario di superalcolici di Frank Sinatra; Marylin Manson, rocker, che prima di entrare in scena addenta orsetti dolci e gommosi.
Ma il centro dell’esposizine ruota senza dubbio intorno alla serie No Seconds, l’ultimo pasto del condannato a morte (tema già affrontato dall’inglese Mattew Collishaw, e anche da altri). Documentandosi sulle richieste dei detenuti nelle carceri americane (ma non tutte concedono un pasto speciale ai condannati), il fotografo ha ricreato i cibi in studio – egli stesso ha preparato i più semplici, con l’aiuto di uno chef i più complessi – e li ha centrati nell’obbiettivo. «Non ci sono mai state testimonianze su questi pasti – afferma – così ho immaginato in che modo potessero essere serviti: in piatti di plastica? In piatti cinesi? In posateria metallica? Oppure no, per il rischio di atti di autolesionismo? Su una tovaglietta? Su una panchina? Poi li ho fotografati mettendomi nella posizione del detenuto, prima che prendesse in mano le posate. Trovo l’intero rituale dell’ultima cena surreale – continua Hargreaves–. L’uomo sta per commettere su un fratello un atto barbarico e la richiesta del pasto da consumare viene, assurdamente ritenuta civile». Il risultato è un percorso insieme di denuncia civile e di elaborazione estetica. «Tutti, a loro modo, sono quadri scioccanti. Il più significativo è il piatto al cui fondo c’è una singola oliva. E anche la coppa di gelato alla menta con gocce di cioccolato». L’oliva fu la richiesta di Victor Feguer, condannato nello Iowa per rapimento e omicidio, che si era sempre proclamato innocente. «Hargreaves ci immerge in un’atmosfera prossima alla spiritualità. Il piatto scelto dai condannati a morte rivela qualcosa di loro che non potremmo intuire altrimenti», osserva la curatrice.
Il cibo come consolazione estrema, dunque: e qui siamo al limite. Ma, nella quotidianità, il nutrimento è anche conforto. E memoria che evoca persone, situazioni, momenti particolari dell’esistenza. Così, nella mostra, ideata da Mauro Zardetto di Art Movie, s’inserisce l’idea di far interagire il pubblico: si tratta di un movie-contest, che stimola i navigatori della Rete a scavare nei ricordi raccontando il proprio piatto della memoria o del desiderio. Una commissione di esperti sceglierà, tra i più votati via internet, i tre food video-maker che meglio hanno interpretato il tema. Hargreaves non si sottrae. «Io scelgo uova bollite con i crostini di pane. Mi riporta ai giorni della mia spensierata giovinezza in Nuova Zelanda. Lo preparava mia madre, la mattina, per me e mio fratello».
Marisa Fumagalli