La storia vista dagli Zaia. Veneti da 15 generazioni ma con le radici in Croazia
(Corriere del Veneto)
La vicenda della famiglia del governatore diventa simbolo dei veneti contadini ed emigranti.
Il nome? Nei Balcani richiama lepri e cavalli
Piccolo quiz agostano a cavallo tra le due sponde dell’Adriatico. Domanda multipla a risposta unica: in lingua slava significa "lepre"; nei dialetti dell’Istria designa una cesta di vimini; più giù nei Balcani, dove Croazia e Bosnia si toccano nell’etroterra di Spalato, indicava qualcuno che aveva a che fare con le mandrie dei cavalli (attenzione, questo è un indizio importante); secono i turchi, che da quelle parti si sono trattenuti a lungo, vorrebbe dire "gente dal capello riccio"; in veneto non ha un significato proprio, ma tutti, vecchi e bambini in età prescolare compresi, hanno sentito quella parola di quattro lettere almeno una volta. Cos’è?
Soluzione: la risposta giusta a tutte le domande è "zaia". Divenuta nel frattempo "Zaia" con la maiuscola, poiché nel tragitto dalle terre dalmate alla Sinistra Piave veneta, la parolina è diventata, consolidandosi in cognome, identificativa di una famiglia che – grosso modo tra Quattrocento e Cinquecento – aveva compiuto lo stesso percorso in direzione nordovest. Magari proprio per sottrarsi al pericolo turco.
L’avrete capito. L’attuale governatore leghista della Regione, Luca Zaia, può esibire almeno quindici generazioni di avi veneti al cento per cento, ma comunque discende da antenati di probabilissima – fonti documentali non ne sono state trovate – stirpe croata. Dei "nuovi veneti", secondo i criteri di oggi. Ma allora l’influenza della Serenissima sulla fascia costiera dell’Adriatico orientale e sul primo entroterra era fortissima, e i traffici fra le sue sponde continui, di merci, di uomini e di cavalli. Quegli stessi cavalli che, quasi a testimoniare una memoria genetica che ha attraversato i secoli, oggi sono la passione di Luca Zaia, come lo erano di suo padre e di suo nonno. Tutto si tiene, insomma.
L’epopea familiare degli Zaia, una storia di cinque secoli scritta dal basso ed emblematica di una moltitudine destinata a non fare Storia («i miei sono sempre stati povera gente – dice Luca, sicuramente il più illustre della dinastia –, mezzadri senza terra ed emigranti»), ora si ritrova in un libro di monumentale documentazione archivistica, curato dal ricercatore coneglianese Roberto Ros, che ci ha dedicato dieci anni buoni di lavoro. Presentato ieri alla libreria Lovat di Villorba (Treviso), con l’intervento dello Zaia governatore, il libro si intitola "Tra campardi e palù. Gli Zaia, storia di una famiglia veneta" (Edizioni Antiga di Crocetta del Montello, 854 pagine). Già il titolo sfugge a qualsiasi tentazione agiografica nei confronti dell’uomo politico al potere, che per altro all’interno viene citato di passata un paio di volte e poco più: «Tra campardi e palù – dice Ros – sta a significare che gli Zaia vengono dai grebani. La loro è un’epopea contadina, comune a migliaia di altre famiglie venete che in essa si possono riconoscere e identificare, a cominciare dalla necessità dell’emigrazione in Brasile (siamo a fine Ottocento, ndr) e ritorno, dopo un’esperienza disastrosa da schiavi nelle fazendas. E poi la Grande Guerra e la lotta partigiana».
D’accordo, è storia collettiva e identitaria. Ma il fatto di avere scelto proprio la famiglia Zaia piuttosto che cento altre con un vissuto del tutto simile, ha aiutato nella ricerca oppure no? Ros, che di sicuro leghista non è, ammette tranquillamente: «Il cognome Zaia mi ha aperto alcune porte di archivio, che magari altrimenti sarebbero rimaste chiuse, ma in qualche caso mi ha anche ostacolato. Qualcuno, all’inizio, può avere sospettato che fossi un galoppino al servizio del politico, ma l’equivoco si è chiarito rapidamente».
Ros ha avuto, oltre alla costanza del perlustratore di archivi, il pregio di andare di persona sulle tracce degli Zaia. Non solo a Bibano, Codognè, Pianzano, Orsago, San Cassiano – i paesi della Sinistra Piave trevigiana dove si insediarono gli avi del governatore – ma anche giù giù fino allo sperduto villaggio di Arzanò, al confine tra Croazie e Bosnia, dove tutto potrebbe essere cominciato. «Documenti scritti non ne ho trovati – ricorda l’autore del libro – ma nel cimitero di quel paese almeno il 30% delle tombe reca il nome di uno Zaja (con la i lunga, alla slava, ndr) sulla lapide». Da qui, probabilmente, si sono sparpagliati ai quattro angoli del mondo: ci sono Zaia in Siria e nelle isole Eolie, a cavallo tra Veneto e Friuli e in Sudamerica. E Zaia si chiamava anche il capo del campo nomadi della Favorita di Palermo. «Ma, in questo caso, abbiamo scoperto che Zaia, curiosamente, era il nome di battesimo». Pericolo scampato.