Sguardi sulla Laguna: dopo Turner vedi Congdon

19.06.2012

da Venezia Giancarlo Papi

 

L’artista americano William Congdon (1912-1998) figlio di un industriale dell’acciaio, di famiglia puritana, ha vissuto tragiche esperienze nella seconda guerra mondiale e poi nei ghetti di NewYork. Amico di Pollock e di Rothko, negli anni Quaranta ha fatto parte del nucleo storico dell’Action painting che ruotava attorno alla fondamentale Betty Parsons Gallery. È stato un grande giiramondo ma in seguito, per molti anni, fino alla morte, ha condotto una vita quasi monastica in un cascinale nei pressi di Milano. In Italia giunse molti anni prima, nel 1948. Si fermò a Venezia e qui, pur viaggiando spesso, rimase per dodici anni fino al 1960. Ed è proprio il periodo veneziano su cui si sofferma, per la prima volta, in concomitanza con il centenario della nascita, la mostra in corso nella città lagunare a Ca’ Foscari a cura di Giuseppe Barbieri e Silvia Burini con la collaborazione di Rodolfo Balzarotti (catalogo Terra Ferma). Una quarantina di opere, dal 1948 al 1960, oltre a schizzi, disegni, appunti e lettere, raccontano questo lungo soggiorno nel corso del quale Congdon conquistà l’ammirazione di Peggy Guggenheim che perentoriamente lo definì come «l’unico pittore, dopo Turner, ad aver capito Venezia». Una Venezia che il sole smaterializza e di cui lamina le forme sospendendole in un effetto cristallino di superficie, come in un mosaico bizantino. Si veda, in proposito, Venice-Palazzo Dario, del 1948, un piccolo, prezioso olio che documenta anche l’uso di incidere il colore con un punteruolo, tecnica che rappresenta la cifra stilistica del linguaggio congdoniano. In particolare nelle opere realizzate tra gli anni ‘50 e ‘56 si assiste a quella che è stata definita una vera e propria «lotta» tra spatola e punteruolo (Venice, 4 – Canal, 1950), tra stratificazione e abrasione (White Lagoon, 1953). Tutto questo sortisce un effetto di grande vigore espressivo: i graffiti, le incisioni, i raschiamenti non producono o non accentuano solo un effetto di corrosione, di dilavamento di superficie, ma scavano, provocano sprofondamenti abissali come di catastrofici inghiottimenti geologici (Piazza Venice, 7, 1951). Così come lo sfregiare e lo sgretolare determinano un effetto di implosione e una sorta di risucchio vertiginoso nella profondità e nel suo buio sordo (Venice, 1952). A partire dal 1957 Congdon abbandona l’approccio intimistico e antimonumentale in favore di tonalità più evanescenti, con toni più chiari che sembrano cancellare le Venezie precedenti. Si attenuano, fino ad estinguersi, la densa matericità di colori, smalti, di preziose polveri. «Sono ormai gli anni di una Venezia bianca – afferma Barbieri in catalogo – che Congdon percepisce in singolare controtendenza con una secolare tradizione figurativa e letteraria». Possibile che in ciò abbia contato il confronto con la pittura veneziana di quegli armi: quella di Guidi, di Vedova, di Tancredi, di Deluigi.