Scarpa in Benin per un villaggio partecipato
[Alias – Il Manifesto]
Vìride – critica del giardino
di Andrea Di Salvo
Baobab di 13-14metri di diametro riassociano sulla verticale delle relazioni visive (cui più siamo usi affidarci) un affiorare al suolo del palinsesto delle trame di forme, funzioni, memorie e simboli che, nella sempre rinnovata cosmogonia di villaggio cui tutte concorrono, si fa luogo di invenzione di una comunità, della sua identità. Taneka Beri è il luogo altro, villaggio del nord-ovest del Benin, sulle colline Taneka, cui è dedicata l’edizione 2011 del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino (a cura di Domenico Luciani e Patrizia Boschiero, con l’antropologo Marco Aime, pp.192, 20,00 €, Antiga Edizioni). Ventiduesima edizione di una «campagna di attenzioni» promossa dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche dove premiare un luogo significa indagarlo nel suo farsi «rapporto tra forma e vita». Dialetticamente, sempre in bilico tra conservazione e reinvenzione partecipata. Una rapida scorsa all’indice dei luoghi selezionati negli anni dà la misura di come per intenderne in tal senso il valore sia necessario affilare una particolare attenzione. Considerando come l’accento sia posto non tanto sul «talento dell’inventore, ma sulla sapienza e la continuità di una guida che riesce a far vivere nel tempo quella stessa invenzione». E come alla «eleggibilità» dei luoghi si vogliano operativamente intrecciati orientamenti pratici per attivare coscienza e cultura del loro «governo». Da "I sentieri di fronte all’Acropoli, di Dimitris Pikionis, alle architetture erratiche della Val Bavona nel Canton Ticino, dagli interventi di Bogdan Bogdanovic nel "Complesso memorial edi Jasenovac" o di Sven-Ingvar Andersson sul "Museumplein" di Amsterdam, fino da ultimo al villaggio di Taneka Beri. E qui, ricalcando e variando le profferte di un territorio accudito e venerato, la trama di insiemi abitativi e funzionali del lontano villaggio del popolo Taneka (quelli delle pietre) si sovrappone a quella degli spazi rituali in una mappa fisica e mentale di relazioni e proiezioni simboliche (nella documentazione, le tabelle di percorrenza «in passi» contemperano le aspirazioni alla misurazione spaziale e al rilievo geometrico di una metodologia paesaggistica rimeditata dal filtro «antropologico»). Alberi secolari, pietre opportunamente scelte e posizionate ordinando spazi-funzione destinati a riti e socialità. Grotte, affioramenti di rocce si integrano nel tracciato del muretto eretto a protezione dai razziatori di schiavi, puntello identitario del mito di fondazione di una società nata in difesa della libertà, esito della compresenza di diverse etnie confluite integrando fuggitivi in una particolare organizzazione sociale. Interpretando un territorio che la accoglie e la plasma nel comune senso di appartenenza, la comunità rispecchia la propria identità anche nell’invenzione di un paesaggio. Espressione dell’irriducibilità delle differenze con cui siamo chiamati a confrontarci, il microcosmo di Taneka Beri è al tempo stesso occorrenza di un «universale concreto» che dalla sua alterità ci interroga, proponendosi perfino come «possibile paradigma di sviluppo sostenibile».